Giovanni CESCA

Giovanni Cesca

Terre d’acqua tra storia e paesaggio: gioco di specchi e di memoria nell’arte di Giovanni Cesca Rivista Finnegans
di Chiara Polita
2009

 

 

Due grandi liberi orizzonti segnano l’identità del paesaggio di bonifica tra Piave e Livenza, in una dimensione trasversale al tempo: la distesa del cielo e il fragile manto di terre anfibie, con le quali tuttora si confronta l’ingegno umano, incise da varie presenze d’acqua, che nella forma dei due fiumi, di canali e antiche lagune, rincorrono le metamorfosi della volta sovrastante. Così riflessi ora morbidi, caldi o metallici e taglienti diventano spesso autonomi paesaggi di emozioni, sempre intimamente legati, anche nel loro attuale impatto visivo di razionale e astratta geometria di canali ed argini, all’intima radice di terre d’acqua sintetizzate dall’ancestrale immagine avvolgente, quasi sacra e senz’ordine, della palude, altro astratto sul piano inconscio ed emotivo.
Cieli ed acque sono quindi ciò che già caratterizzava, per le terre del Piave, nella seconda metà dell’Ottocento, la pittura di Vittorio Marusso (1867-1945), con i suoi incendi di tramonti sugli umidi silenti specchi plaustri, riflesso di un paesaggio ancora indomito e profondamente suggestivo; ma questi stessi elementi sono stati, e tuttora continuano ad essere, l’imprescindibile componente genetica dei pittori del Basso Piave che naturalmente cercano l’acqua, anche quando sono all’estero, in un gioco oltre il tempo che sempre si confronta con l’originaria storia e natura del territorio. L’artista che cresce e vive lungo le sponde di un corso d’acqua, per un suggestivo processo di metamorfosi, prerogativa caratteristica già nell’antico delle divinità fluviali, si identifica con il fiume, conservando sempre in sé quel flusso irrequieto di storia, tradizioni ed emozioni che raccontano in divenire la sua identità e quella della sua terra, scorrendo al tempo stesso come metafora dell’esistenza. In quest’alveo tra cielo e terra, specchio indagatore di riflessi senza età, tra passato, presente e futuro, si inserisce una parte della produzione artistica del sandonatese Giovanni Cesca. La volontà di esplorare la propria terra, quasi come sfida di quanto l’artista stesso conosce di quest’ultima, si è tradotta in un duplice itinerario approdato, da un lato, all’incontro inevitabile con il paesaggio fluviale e di bonifica, dall’altro ad un percorso inverso: dalla foce alla sorgente, alla ricerca dell’identità antica di quello scenario e alla memoria dell’interazione tra uomo e ambiente che affonda le radici nell’archeologia.
Si alternano dunque, tra sapienti pastelli di grandi dimensioni e dipinti ad olio, intensi scorci delle anse verdeggianti del sinuoso Livenza, del fiume sacro, il Piave, che lambisce la città dove Cesca vive, e profondi tagli di canali di bonifica, affascinanti in tutte le stagioni. Nessun elemento è tralasciato dall’artista, maestro del segno e del colore, che nel vivido realismo di quelle immagini desidera creare il coinvolgimento dell’osservatore, portato ad immedesimarsi nei suoi stessi occhi per assorbire interamente l’attimo incantato della visione. Non è il tempo dell’ “impressione” ma il lento lavorio speculativo della “riflessione” che è anche indagine sulla materia, sul colore e che scava da dietro la tela, invitando a procedere oltre. Così quel viaggio che a volte si libra leggero, nei tagli quasi a pelo d’acqua, a volte sovrasta in volo il flusso sottostante, fino a smaterializzarsi nei cieli, non si risolve mai in una ricerca d’identità solamente personale, ma tende piuttosto allo stupore di una scoperta da condividere e che rende chi osserva parte di un unico paesaggio, contemplativo e silenzioso, quasi fermato come istantanea di un’intuizione.
Le intense atmosfere di queste terre che, nei suoi elementi naturali già di sapore primordiale, creano in alcune opere uno scenario sospeso tra romantico e sublime, già costituiscono l’assolo per l’ulteriore sentiero intrapreso dall’artista, destinato ad altri esiti che costruiscono quasi una nuova metafisica. Nel ciclo dedicato ai Veneti antichi, il realismo di Cesca si stempera quindi in una dimensione onirica che tuttavia mantiene sempre un lucido controllo nella volontà speculativa, approdando al recupero dell’antico, che riaffiora in un gioco di specchi tra paesaggio, inconscio, memoria visiva e linea del reperto, sinergico ed interattivo con il paesaggio stesso, quale ponte e strumento di analisi di identità attraverso il tempo.
Nell’essenza anfibia di queste terre, dalla quale si sollevano umide nebbie, ritagliate tra dossi nei quali si è insediata la vita tra spechi d’acqua di fiumi, paludi e canali, Cesca fa rivivere la testimonianza archeologica che diventa gioco di linee e di segni con lo stesso paesaggio contemporaneo, proponendosi quale suggestivo eterno presente, che interroga l’inconscio e la memoria. Come filiformi presenze, dominanti nel loro aspetto cerebrale, avanzano nel paesaggio gli stili scrittori della dea Reitia, potente dea madre venetica, associata anche all’insegnamento della scrittura: si stagliano nella laguna, come evanescenti presenze in metamorfosi col canneto circostante, emergono silenti tra le foschie dell’antica palude o in un gioco di richiami si alternano, in contrappunto, alle presenze alberate che tuttora scortano alcune strade e canali di bonifica e che nelle linee figurano come alter-ego degli stessi stili. E’ il tempo che ancora scrive il paesaggio e in cui si confondono uomo, memoria e identità in una prospettiva non lineare, ma circolare che aiuta a rileggere il presente; e la magia che attiva il ricordo e che aiuta a sfogliare come libro di segni il paesaggio, è celata nei segni venetici della scrittura che gli stili portano impressi nel loro corpo, come incantesimo e voce da svelare.
A volte il reperto è invece isolato nell’inconscio nella volontà di esplorarne i particolari, che riscoprono sintesi di linee e forza di segni già sorprendentemente moderni, nella loro essenzialità e gemotrie: ne risulta una coinvolgente serie di pastelli che rivivono parti salienti di antiche lamine votive sbalzate nelle quali affiora, senza tempo, il sacro: si susseguono suggestioni dal disco di Reitia, all’incedere del guerriero, agli zoccoli scalpitanti dei cavalli, per l’allevamento dei quali i Veneti antichi erano particolarmente rinomati. Lo stesso Dioniso di Siracusa faceva giungere dalle terre di Veneti i suoi cavalli, celebri e veloci. E proprio nelle terre del Piave questa illustre tradizione lasciò un importante retaggio ricorrente in alcuni toponimi (si pensi ad esempio a Jesolo -da Equilium – equus in latino = cavallo- o al lido di Cavallino) e nella tradizione della razza equina Piave, che a San Donà di Piave mantenne la tradizione di una importante fiera di cavalli, nel mese di maggio, fino all’inizio del Novecento.
E’ tuttavia soprattutto nella dimensione del sacro, in ci si fondono memoria, inconscio e paesaggio, che Cesca afferma energicamente il senso dell’identità della sua terra e della sua storia, in un continuo gioco di specchi. Così in “Presenze all’albero di Reitia”, su un dosso circondato in parte dall’acqua, importante elemento rituale, tra le foschie gassose di un’alba che ricorda l’atmosfera di un altro pianeta (ma che di fatto incendia i cieli di queste terre) sfuggenti presenze, come ombre, si allontano o incedono verso l’albero sacro sui cui rami è appeso il disco votivo con l’immagine della dea Reitia, signora della vita e della morte, potente dea salutare, connessa anche alle acque che purificano, che salvano. Ne risulta una dimensione del sacro che trova nella natura del paesaggio la sua essenza, tra boschi e in prossimità di corsi d’acqua. E l’eco della dea madre che guarisce troverà nel tempo grande seguito nel Veneto, attraverso quel processo di sincretismo che porterà a sovrapporre ad antichi culti quello della Vergine, associata alla sfera della salute: non più su dischi sbalzati, come per i Veneti antichi, ma su semplici capitelli, la Mater Dei troverà ospitalità all’ombra di rami e sui tronchi d’alberi, quale segno di pietà e devozione della civiltà rurale, nella quale a lungo cotinuarono a coesistere rito e magia. Nel sentiero anfibio intrapreso, viaggio sui fiumi e lungo la storia, l’arte di Cesca sapientemente ritraccia quindi un’identità, che in queste terre d’acqua, spesso parla suggestivamente al femminile, ricorrente dall’antico nel nome stesso dei due fiumi, “la Piave”, “la Livenza”, nonché nell’immagine materna e matrigna della palude, territorio astratto dell’indefinito e ancestrale dominio delle acque in cui si congiungono e confondono i due estremi del mistero luminoso della vita e oscuro della morte, come era attributo e regno della venetica Reitia e delle stesse dee madri. Così memoria, acqua, terra e uomo partecipano in Giovanni Cesca ad un unico, intenso, quanto amato, paesaggio senza tempo


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