NEL RECINTO DELLO STUPORE
di Giancarlo Pauletto
Una "storia dello
stupore davanti all'essere" non potrà mai essere veramente scritta,
poiché essa comincia quando – un milione di anni fa? - un vivente fu in
grado di pensare "io" rispetto a quell' "altro" che dovettero
apparirgli tutte le cose: l' "essere", appunto, sconfinata distesa
dentro la quale operare per la sopravvivenza obbedendo a comportamenti
già messi in prova, o inventandone di nuovi secondo che la necessità lo
richiedesse: l'utilità costruiva ipotesi da rinnovare mano a mano che
esse non rispondevano più alle domande che la vita imponeva, e così si
modificarono le cose fino ai tempi cosiddetti storici, sempre in
risposta a quello "stupore" iniziale che fu il vero iniziatore di ogni
evento.
Anche dell'arte, che è anzi il luogo dove meglio la sua
aura si conserva, ridandoci talora il brivido di un "mistero" su cui
tutto, alla fine, sembra poggiare e che tutto, alla fine, sembra
coinvolgere in sé.
Certo, gli uomini hanno tentato risposte definitive a quello stupore.
Ci furono,
nell'antichità, gli dei. Ci fu poi un unico motore immobile, causa
efficiente e finale del mondo, alfa e omega, principio e fine. Dio,
insomma, qualunque fosse la religione entro cui veniva affermato.
Ma la modernità, certo, ha messo in dubbio continuamente questa idea,
ridando spazio a quell'antichissimo atteggiamento, a quell'antichissima
meraviglia, a quell'antichissima domanda.
Poiché, se appena nei confronti del reale si esce da un atteggiamento
utilitario, se appena cioè smettiamo di chiederci, davanti ad un
oggetto, "a cosa serve", subito esso ammutolisce, si richiude in se
stesso, ridiventa un mistero. Noi diciamo di sapere cosa sono le cose,
perché sappiamo a cosa ci servono o – che è lo stesso – a cosa non ci
servono, come ci aiutano a vivere, o come non ci aiutano a vivere.
E' in questo modo che esse danno significato al nostro tempo, assumono ordine, gerarchia, importanza.
Ma quando, per qualche ragione, si rivive il primitivo stupore di
fronte all'essere, allora si possono dipingere i quadri metafisici di
De Chirico, piazze immense in cui la figura umana è niente, oggetti
sacri proprio perché misteriosi, manichini immobili come statue perché
nessun moto ha senso, se non ha una meta; e si possono scrivere i versi
di Montale : "Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l'animo
nostro informe…/Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo,
ciò che non vogliamo."
Anche l'ultima pittura di Giovanni Cesca è entrata nel recinto, sospeso e fascinoso, dello "stupore".
L' esplorazione nel laboratorio di sartoria del padre, dopo la sua
scomparsa, lo mette in contatto con la varietà di oggetti che di quel
laboratorio rimangono protagonisti, e protagonisti impregnati dell'aura
sacrale che hanno le reliquie, cioè le cose che furono a vivo,
quotidiano contatto con la persona di cui si serba l'emozionata memoria.
Questi oggetti, dunque, significano contemporaneamente una presenza e un' assenza, dicono
la stupefazione con cui, alla fine, si constata la vita e la morte, ci
rimettono di fronte al sospeso sgomento del nostro esserci e sparire.
Non che prima l'artista li ignorasse, ma essi erano appunto appresi in
un contesto – il lavoro del padre, i propri giochi di ragazzo, i
colloqui con persone e familiari – da cui assumevano un significato
"normale": forbici che servono per tagliare, bottoni che devono essere
attaccati ai vestiti, ganci che dovranno agganciare, metri che dovranno
misurare e via dicendo.
Mentre nella nuova situazione, destituiti d'uso, essi assumono e
portano con sé tutta la misteriosa pregnanza di una vita che non c'è
più: diventano oggetti di un mondo scomparso, archeologia, amuleti,
testimonianze preziose davanti alle quali il primo dovere è quello
dell'esattezza, di una insistita e toccante precisione, unico strumento
attraverso il quale si può testimoniare la verità tutta concreta di una
vita reale, quotidiana, legata per mille fili al pittore-testimone.
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