Giovanni CESCA

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GIOVANNI CESCA

"Tra simbolo e natura"

di Giancarlo Pauletto

2016

Si può partire, per alcune considerazioni su questi disegni di Giovanni Cesca, da un’opera del 2000, Il capitello di gesso, in cui grafite e sanguigna, bianconero e colore, freddo e caldo vengono usati assieme ad ottenere un risultato certo di grande equilibrio formale, ma anche di viva tensione fantastica, intimamente legata ad una leggerezza che definirei musicale, la musica di un incantato, malinconico e misterioso andantino.
Non è facile districare le sensazioni che, provenendo insieme dal disegno, inducono a questa affermazione, è tuttavia necessario provare a farlo, se non ci si vuol accontentare di parole forse suggestive, ma criticamente insufficienti.
V’è anzitutto la sottile malinconia del volto femminile sbalzato sul capitello, volto le cui iridi scure parlano di vita e non di morte, ma di una vita come sospesa, abbandonata in una tristezza non facilmente redimibile.
Non è insomma, questo volto, un elemento figurativo occasionale, un pretesto di pittura, è al contrario il centro sentimentale dell’opera, non per nulla essendone anche il perfetto centro costruttivo.
L’ambiente poi, in cui questo volto è inserito, e anzitutto il capitello corinzio - che lo colloca in un aura di rarefatta, marmorea, lontana e quasi inattingibile realtà - è di un biancore sottolineato dalla voluta leggerezza del chiaroscuro, contrastato, per maggior effetto, dal deciso buio, diremmo dalla notte del fondo: viene così dall’opera una specie di brivido, che non è un brivido di freddo estetico, ma l’espressione nitida di una contratta malinconia esistenziale.
Su questa malinconia poi l’omaggio leggero, levitante delle foglie autunnali, una carezza come una delicatissima appoggiatura di note; e infine l’impensabile ma perfetto ametista dell’acqua nel bicchiere, un colore trasparente e prezioso come una sorta di dono votivo.
Ecco, spero di essere riuscito a giustificare, a un dipresso, quel che sopra ho affermato, e non occorre neppure aggiungere che tutto questo è reso possibile dalla sostenutissima acribia esecutiva dell’artista, senza la quale, naturalmente, non ci sarebbe neanche l’oggetto su cui discorrere.
Questa medesima tensione di Cesca ad esprimere, attraverso il visivo, l’esistenziale, noi ritroviamo anche negli altri disegni presenti in mostra, su alcuni dei quali mi soffermerò ora cercando di chiarire ulteriormente quel che vado dicendo.
Tutti i lavori in cui domina la grafite, è chiaro, tendono a consistere in un’aura di nitida concisione e quasi di immobilità estatica: il bianconero è quasi per sua natura “essenzializzante”, specie se l’attenzione dell’artista è all’ “apparire” di ciò che esiste, alla sua possibile, delineata perfezione.
C’è tuttavia, in questi bianconeri, sempre un elemento di vibrazione luminosa che impedisce loro di raggelarsi, di consistere in una troppo bloccata nitidezza.
In Trasparenze nella luce velata è la morbidissima atmosfera in cui vive il vaso di fiori a far respirare la luce, nitida sì, ma sensitiva e per così dire tiepida; in Omaggio al poeta - lettera a Dioniso è ancora la s/centratura dei fiori, con la sua intensa luminosità, ad introdurre un deciso elemento di coerenza formale e di percepibile quotidianità nella molto articolata scena; persino ne Il testimone, che tra tutte appare come la tavola più bloccata in una forma asseverativa ha, nel protendersi drammatico della mano dal buio, un allusione dinamica che strappa l’intera icona dal dominio di una sia pur perfettamente esibita abilità esecutiva.
Se poi Cesca lavora con la sanguigna, i dati di natura vengono naturalmente ancor più in luce, in primo luogo per la qualità stessa del materiale, ma ovviamente anche e soprattutto perché i soggetti presi in esame sono delle vedute, dei paesaggi: e allora è proprio il suggerimento d’atmosfera a diventare il tema dell’opera.
Si deve tuttavia aggiungere: non in termini impressionisti.
Direi che è piuttosto il Settecento veneto a dar suggerimenti al pittore, attraverso una percepibile nostalgia per il passato, che non mi pare essere semplicemente rifiuto del presente, ma piuttosto consapevolezza di una tradizione le cui radici possono ancora essere feconde, se non si riducano a semplice rifacimento museale.
Ciò che sicuramente non accade in un’opera come il grande albero raffigurato in tutto il suo potente respiro naturale, e neppure in un lavoro come Giganti nell’acqua, questa specie di commosso epicedio dedicato alle due barche che si consumano abbandonate nel fiume.
Si sente nell’immagine, già a partire dalla scelta del soggetto, il senso di una pietà che abbraccia insieme il naturale e l’umano: l’umano qui rappresentato proprio nella trasparente metafora delle barche.
In altri disegni domina un aspetto che potremmo definire romantico: L’attesa, Grande scenario alle mura, Riflessi al ponte Dante, Ricordi d’acque al Ponte de Pria, tutte opere che si rivelano affascinate da uno scenografico, che però non si consuma in se stesso, perché è in realtà sostenuto da un vivo senso di ammirazione per il naturale, quando esso fa tutt’uno con lo storico e il culturale. Infine un accenno almeno ad Elisa, sanguigna del 1999, ritratto di figura dormiente intimamente accarezzato da una luce, che è attenta osservazione della realtà e, nello stesso tempo, espressione di una condivisione umana suggerita dalla grazia.


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