Giovanni CESCA

Giovanni Cesca

"NOSTOI" - RITORNI

di Eugenio Manzato

 

“Nòstos” in greco antico significa “ritorno”, e “òi nòstoi” erano chiamati i poemi del ritorno degli eroi greci dalla guerra di Troia, il più famoso dei quali – e per altro l’unico giunto fino a noi – è l’Odissea.

Il percorso artistico di Giovanni Cesca è scandito da partenze, viaggi e ritorni, sia figurati che reali, così che non sembra arbitrario leggerne i risultati sulla traccia del mito di Ulisse, nella complessità come esso è pervenuto – da Omero  alla tradizione medievale, a Joyce e Umberto Saba – fino ai nostri giorni.

All’origine vi è, nella cittadina di San Donà di Piave, un bimbo di forse quattro o cinque anni che nella rassicurante atmosfera della sartoria paterna disegna sul fianco dei vasti banchi di lavoro paesaggi immaginari coi gessetti colorati in uso ai sarti. E a pochi anni di distanza quel bambino rimane affascinato dalla predicazione di Padre Giulio che descrive la vita del missionario quale un’avventura da personaggio salgariano: talché il piccolo Giovanni decide, nello stupore dei famigliari, di entrare nel Pontificio Istituto per le Missioni Estere di Treviso.
Perché Treviso? Perché San Donà è in provincia di Venezia ma in diocesi di Treviso, e ne consegue un legame con questa città, altrimenti difficilmente ipotizzabile, fecondo di costruttive conseguenze nell’attività del futuro artista: in effetti, nonostante la severità del quotidiano, Palazzo Rinaldi, sede del P.I.M.E., è un edificio capace di affascinare un ragazzo dalla fertile fantasia, con i suoi saloni affrescati racchiusi da antiche travature, e soprattutto con i rivi di acque limpide e impetuose che lo circondano, rapaci nell’ involare il pallone che accidentalmente superava le recinzioni dei cortili. Qui Giovanni ha modo di liberare estri d’artista: nella musica, voce bianca solista sia in istituto che in prestigiose trasferte in Cattedrale e in sfoghi creativi al pianoforte, e soprattutto in pittura. Avendone compresa la propensione al disegno i padri gli fanno eseguire lavori su tavola per le rappresentazioni teatrali, e dipinti su grandi fogli di carta da pacchi che venivano tesi alle finestre dei dormitori con l’effetto di multicolori vetrate durante processioni notturne.

La vocazione all’arte ebbe la meglio su quella del missionario, cosicché alla fine della scuola media Giovanni si iscrisse all’Istituto d’arte di Venezia, la famosa “Scuola dei Carmini”, dove apprese le tecniche della pittura, e in particolare l’affresco, diplomandosi nel 1966, a soli 18 anni, Maestro d’Arte. Dell’Istituto ai Carmini gli resterà particolare ricordo dell’insegnamento di Armando Tonello, fine pittore di paesaggio, che lo spingeva ad uscire dall’aula per andare a dipingere Venezia “en plein air”.
Segue l’iscrizione all’Accademia dove frequenta i corsi di pittura di Bruno Saetti e Carmelo Zotti. Sono gli anni fra il ’66 e il ’70 e Venezia è piena di fermenti: a Palazzo Venier Peggy Guggenheim apre ai visitatori le sue collezioni , arrivano le Biennali della contestazione. Il giovane Cesca, stimolato dai suoi docenti, si apre alle sperimentazioni, studia le avanguardie del Novecento, attento anche agli esempi più recenti come dimostra l’argomento scelto per la tesi di storia dell’arte, una ricerca su Sutherland.

Inizia quindi un lungo “viaggio” ultraventennale, che riguarda innanzitutto il lavoro ma coinvolge anche l’aspetto personale ed esistenziale, quale sarà ad esempio la frequentazione a Milano del gruppo lacaniano di semiotica e psicanalisi.
L’intensa e fertile produzione di questi anni – già ampiamente indagata da valenti studiosi in più occasioni – passa da influssi  della figurazione cubista e futurista, a un drammatico espressionismo, fino a forme di astrattismo lirico. Assai importante e densa di stimoli è anche l’attività espositiva: dalle collettive alla Bevilacqua La Masa dei primi anni ’70 in cui riceve premi e riconoscimenti, a collettive di grande prestigio a Roma, Livorno, Vienna, Nagoya e Tokio, a mostre personali di grande respiro a Firenze, Napoli, Bergamo, Milano, Savona, Sarajevo,Zara, Zagabria, Rotterdam e Amburgo.

Il “viaggio” termina all’inizio degli anni ’90 per la necessità di una pausa di riflessione dopo sperimentazioni ed esperienze tanto intense e vorticose: la committenza di una Via Crucis per la chiesa di Mussetta, popoloso quartiere di San Donà di Piave, offre a Cesca l’occasione di meditare sul cammino percorso e sui risultati conseguiti. Accettando, quasi come una sfida, la commissione egli finirà per riappropriarsi di un linguaggio figurativo da lungo tempo trascurato, capace tuttavia di riportarlo – non senza grande travaglio e fatica – alle origini della sua formazione, alle lezioni di Franco Costalonga alla Scuola d’arte, quando apprendeva le tecniche dell’affresco e dello strappo in una situazione molto simile a quella che si instaurava nelle antiche botteghe tra maestro e allievi.
Ma nel ritrovato rapporto con le origini della sua pittura, Giovanni riscopre anche le sue radici personali. In particolare egli ha una specie di folgorazione per il territorio che circonda San Donà: è una vasta campagna di bonifica, intersecata da fiumi e canali che scorrono lenti tra argini alti sopra i campi; l’orizzonte è libero, solo interrotto da alberi poderosi – pioppi, platani, aceri, robinie e qualche quercia – che chiudono la prospettiva dei solchi, o si stagliano ai margini di un prato, o creano complesse silouettes tra le brume. Cesca ne coglie gli aspetti al di là di una fase descrittiva, in una dimensione contemplativa che trasfigura liricamente la composizione: gli specchi delle superfici tranquille dei fiumi e dei canali riflettono la luce del cielo e ne trasmettono il riverbero agli elementi del paesaggio, che ne risulta simbolicamente vivificato. Così anche i cieli vasti sopra la sconfinata campagna si animano di nuvole dalle forme complesse riverberate di luci mutevoli e diverse secondo le ore del giorno e il passaggio delle stagioni, non in chiave fenomenica ma in una dimensione poetica e spirituale. Come acutamente osserva Roberto Costella, in Cesca “la volontà di conquistare l’essenza della luce-colore e dello spazio-materia connotanti l’identità territoriale veneta, l’impegno a fissarne la forma storicamente consolidata e a coglierne l’energia vivificatrice, diventano i motivi fondanti il nuovo capitolo estetico”.
Nel prosieguo accade che questo paesaggio, prodotto dall’intervento dell’uomo, si carichi di ulteriori significati: Cesca, che è persona colta e amante della storia, ne coglie messaggi che collegano l’uomo attuale con le stratificazioni del tempo. Affiorano memorie dell’antico, l’immagine di Reithia, nume tutelare e propizio delle genti Venete, anima di religiosità i luoghi e i grandi alberi.

Un altro “ritorno”, intimo e familiare, si compie in quegli anni a seguito della morte del padre Pietro. Il laboratorio paterno è la piccola Itaca a cui ritornare con l’animo lieto del bimbo: la descrizione minuziosa degli oggetti di sartoria – condotta per altro con una tecnica, grafite e matite colorate, che ricorda i gessetti delle giocose prove infantili – non è altro se non l’esplorazione nostalgica degli elementi di un paesaggio domestico.

Infine l’ultimo “nòstos”: Treviso. Il ricordo affiora attraverso la frequentazione di amici trevigiani, e stimolo alla creazione artistica viene da un progetto di grande mostra a Casa dei Carraresi, nel prosieguo caduto. Cesca, come i pittori vedutisti della tradizione,  ripercorre le strade e le piazze della città armato di album e matita ed esegue impressioni e schizzi degli aspetti che lo suggestionano.
In studio ne trae disegni a china, dal tratto sicuro e delicato, a cui il contorno indeterminato conferisce il valore di evocazioni sorgive; oppure più complesse composizioni a lapis, seppia e crete chiare, pittoricamente luminose, dal sapore antico.
Vero e proprio omaggio a Treviso costituisce una serie di grandi sanguigne, in cui particolari angoli della città e degli immediati dintorni – celebrati e riconoscibili come il Canale dei Buranelli o Porta San Tommaso, oppure discreti e appartati come il cimitero dei burci sulla Restera – si presentano intrisi di storia per l’evocazione di “numi tutelari” quali il leone del Duomo e la fontana delle tette,  l’erma dei “tre visi” e la grande effigie di San Cristoforo . La morbidezza e la luminosità di questa tecnica, già in uso agli antichi maestri nei bozzetti preparatori – da Leonardo ai Carracci a Rembrandt – utilizzata da Cesca con straordinaria sapienza conferisce una dimensione onirica e favolosa alle vedute, così che anche chi guarda ne rimane affascinato e coinvolto, e un luogo tante volte veduto e sedimentato nell’immagine acquista nuovo significato: è la meraviglia conseguente alla riscoperta dei luoghi che si trasmette dall’artista all’osservatore.

Una ulteriore sorpresa viene dall’ultimo ciclo dedicato a “riflessi d’acque a Treviso”: composizioni multicolori condotte con tecnica del tutto nuova messa a punto di recente, dopo lunghe e faticose sperimentazioni, che rende del tutto originale Giovanni Cesca. Ed è, a ben vedere, la testimonianza di un nuovo “viaggio” intrapreso dall’artista, proprio come Ulisse il cui destino, predetto dall’indovino Tiresia nell’incontro agl’inferi, non è di chiudere serenamente i suoi giorni a Itaca; l’eroe intraprenderà infatti un viaggio che lo porterà lontano, così lontano che il suo remo verrà scambiato, da genti che non hanno mai visto il mare, per un ventilabro: e Dante, che pur non conosceva l’Odissea, ne vedrà il fine nel “seguir virtute e conoscenza”.
Anche Giovanni Cesca è motivato dalla ricerca avventurosa di nuovi territori, la stessa che lo sostenne fanciullo in lunghi anni di severo “noviziato” cui doveva arridere l’esplorazione dell’Africa selvaggia.
Egli, che in tanti anni ha tratto dalle luminose superfici di acque di fiumi diversi motivo di così alta ispirazione, si accinge a varcarne il limite: come Alice che entra nel mondo oltre lo specchio così Giovanni esplora paesaggi sotto la superficie dell’acqua. Ne sortisce una visione nuova della città in cui gli edifici si stemperano in luce e colore: è un invito a guardare Treviso con occhi nuovi, a “entrare” nella profondità della sua essenza, non semplicemente città di strade e di case ma di uomini e donne che l’hanno nei secoli abitata, un invito a viverla con la serenità che viene dalla riflessione, a rispettarla ed apprezzarla con l’animo del poeta.


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