Giovanni CESCA

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SUGGESTIONI DAL PAESAGGIO CILIENSE
di Laura Magagnin
2008

 

Il paesaggio è un fatto interiore,
un luogo del cuore e dell'inconoscibile,
una necessità dell'animo che si sposa
con le esigenze dell'occhio…
(Giovanni Cesca)



Il paesaggio ciliense che si allarga in una cornice d'acqua, terra, cielo, rivive le sue memorie nelle silenziose, solitarie architetture dove si colgono gli echi di umane presenze.
Ecco elevarsi lo storico zuccherificio, simbolo dell'operosa volontà del locale mondo contadino che, fortemente legato alle sue radici, ha da sempre ricercato un equilibrio fra tradizione e innovazione, proficuo dialogo fra l'antica sapienza della vita dei campi e la moderna tecnologia.
Quest'edificio, luogo delle fatiche di tanti lavoratori, un tempo animato dallo stridere di rumorosi macchinari, appare, nell'odierno ritratto di una realtà veneta postindustriale, come un gigante, addormentato.
Oggi che la sua attività è cessata, quest'imponente architettura si fonde con il paesaggio e assieme ad esso diventa testimonianza della nostra storia, della nostra identità di abitanti di luoghi intrisi d'acqua a cui sentiamo di appartenere, perché eredi di generazioni legate da un filo invisibile a questa terra umida.
In "Specchio d'acqua allo zuccherificio", l'imponente complesso industriale compare in lontananza, immerso, al tramontare del sole, in un bagno di luce che ne satura i colori e rende violenti i rapporti cromatici all'interno della composizione: in primo piano prende la scena una vegetazione rigogliosa tra i cui lussureggianti ciuffi erbosi, nella calda sera estiva, si scoprono dorati baluginii.

Di fronte all'immobilità di una polla d'acqua dai riflessi cangianti, specchio di un cielo in cui nuotano fragili nubi, di fronte allo svettare solitario di una muta architettura privata della sua originaria funzione, nasce nello spettatore la percezione di trovarsi in un mondo dove il naturale fluire del tempo si sia arrestato; non è che un attimo dal sapore di eternità quello che l'artista ha voluto definitivamente fermare sulla tela.
Riuscendo a cogliere e a tradurre, quindi, nel linguaggio pittorico le delicate variazioni tonali dei cieli, i camaleontici riflessi luminosi delle acque, le variegate cromie di una vegetazione mutevole nel lento scorrere delle stagioni, il pittore diviene interprete di quel lirismo che solo la natura possiede e di cui i poeti sia della parola che del pennello si sono fatti interpreti.
E come E. Montale ne I limoni ama " le strade che riescono agli erbosi/ fossi […] , le viuzze che […] discendono tra i ciuffi delle canne […], le gazzarre degli uccelli / […] inghiottite dall'azzurro […]", così il nostro pittore riscopre nel silenzio che avvolge l'immagine l'eloquenza con cui la natura parla a chi è capace di comprenderne il magico linguaggio.
L'ineffabile alfabeto si scioglie in scenari i cui protagonisti divengono la scura terra spaccata dalla brina invernale di "Brume sulla campagna ciliense", le misteriose nebbie aurorali di "Quando la luce svela la magia" e, ancora, le soffici distese erbose su cui si adagia lo stanco Piavon di "Riflessi al Donegal".

Ecco l'altra storica architettura che ispira in più di un'occasione Giovanni Cesca che opta, tuttavia, come nel caso dello zuccherificio, per una collocazione quasi ai margini della composizione. L'abbandonato edificio palladiano è colto da un punto di vista prospettico mai frontale, affinché l'ortogonale geometria dell'architettura non s'imponga con prepotenza su di una vegetazione dalle morbide e variegate forme, dove placide acque nel loro calmo fluire descrivono suggestive anse che la luce arricchisce di delicati riflessi.
In "Piavon a Ceggia" l'atmosfera è fortemente pervasa da quel Realismo Magico che tanto caratterizza l'ultima produzione del nostro pittore dove paesaggi quotidiani divengono luoghi dell'anima.
E torna ancora Montale de I Limoni: "…il sussurro/ dei rami amici nell'aria che quasi non si muove […]silenzi in cui le cose/ s'abbandonano e sembrano vicine/ a tradire il loro ultimo segreto[…]"; sono queste le antiche voci da sempre patrimonio della natura umana, spesso mute a orecchie sorde al loro richiamo, che risuonano dallo scorrere dell'immagine .

L'artista osserva la realtà da una privilegiata angolazione poetica e così facendo la trasfigura: le sue vedute non vogliono essere una fedele, neutrale riproduzione di ciò che anche un occasionale spettatore potrebbe immortalare con la sua camera fotografica, bensì, "il pretesto" per andare oltre l'apparenza e scorgere, in un istante, le verità ultime del mondo in cui viviamo.
Le sue immagini, libere da qualsiasi riferimento ad una contingente contemporaneità, appaiono immerse in una sorta di sospensione metafisica al di là del tempo e dello spazio: unico métron possibile, un contemplativo silenzio, volto a suggerire l'intensa e del tutto personale rielaborazione interiore nata dall'incontro tra l'artista e i luoghi ritratti.
L'impalpabile pulviscolo atmosferico che avvolge acque e terre, la luce, irreale nelle tenui gradazioni di pastello conducono a un effetto di forte indefinitezza e, al contempo, a una sensazione di perfetta armonia compositiva.

Storia umana e natura dialogano assieme all'interno di un paesaggio che, sebbene fortemente antropizzato, conserva ancora le tracce di una civiltà rurale il cui passato sopravvive nei bagliori dei silenziosi specchi d'acqua, nelle immense distese celesti su cui si affaccia timida qualche nuvola e, soprattutto, nel misterioso fascino che l'antica residenza domenicale di Dogi e di nobili veneziani ancora conserva.
Le scure frasche che in "Donegal" appaiono in primo piano, quasi a difesa dell'ormai fatiscente edificio, rappresentano una benevola Mater Natura, protettrice di un fastoso passato la cui memoria rivive nell'eloquente silenzio di locali abbandonati da tempo. Di fatto, la cupa sagoma dei rami che potrebbe anche apparire minacciosa, direi quasi inquietante, contribuisce col dare maggior risalto alla parata di verdi sempre più luminosi che incorniciano, assieme all'intenso azzurro del cielo, la solitaria architettura palladiana.
Si tratti di queste fronde, o di irregolari, disordinati ciuffi erbosi ( "Specchio d'acqua allo zuccherificio" ) o di sparuti arbusti che inaspettatamente emergono da un omogeneo manto nevoso ( "Soffice neve allo zuccherificio") tutti introducono gradualmente l'osservatore all'interno della composizione, lo aiutano a penetrare i segreti di una veduta che, come giustamente osserva Roberto Costella, risulta in verità una "visione", idea sublimata di una realtà cui l'artista è pervenuto attraverso un faticoso, ma necessario lavoro d'introspezione individuale.

Inevitabile, dunque, il superamento della tanto celebrata tecnica en plein air dove manca il tempo per quell'attenta riflessione sul soggetto che costituisce per il nostro pittore un'imprescindibile esigenza e che ritrova le sue radici nella grande tradizione veneta rinascimentale: ogni paesaggio, veduta o scorcio prospettico rimandano a significati ulteriori che tuttavia conservano sempre un legame con la realtà a cui si ispirano.
"Soffice neve allo zuccherificio", grazie all'attenzione con cui l'acuto sguardo indaga ciascun dettaglio all'interno della composizione, testimonia quell'adesione al reale che ha segnato la chiave di volta per l'ultima produzione dell'artista sandonatese: la precisione delle linee, le perfette convergenze prospettiche, il rispetto per ogni singola proporzione sono "responsabili" di quella perfezione formale, di quell'equilibrio compositivo immediatamente percepibili a una prima occhiata.
A ben vedere però, l'immagine descritta si veste via via di un'atmosfera dal sapore fiabesco, tanto che ti aspetteresti di veder sbucare dalla fitta coltre di neve un folletto infreddolito o uno spiritello dalle membra intirizzite. L'imponente sagoma del colosso industriale sembra addolcirsi, addirittura abbozzare un timido sorriso attraverso gli sgangherati finestroni da cui la severa architettura scruta quei pochi ciuffi di vegetazione che, ribellatisi al peso del candido mantello, si specchiano in immobili acque ghiacciate; intanto il cielo di uno sfumato grigio perlaceo ricorda i lirici scenari invernali immortalati in più di un'occasione dal fiammingo Brueghel il Giovane.

Il misterioso fascino dell'inverno, in cui la rigogliosa natura sembra addormentarsi, incapace di sopportare giornate sempre più brevi e avare di luce, torna con rinnovato lirismo in "Brume sulla campagna ciliense". Qui una rugosa distesa di sterpaglie indurite dalla sottile brina mattutina, produce un movimentato gioco di luci e di ombre: alle materiche pennellate in primissimo piano che ricordano alcuni paesaggi rurali di illustri Macchiaioli come Fattori e Segantini, si sostituiscono, a poco a poco, delicate stesure cromatiche "in punta di pennello" che in lontananza disegnano l'indefinita sagoma del borgo ciliense, assonnato fantasma, ben protetto dalla lattiginosa atmosfera da cui è avvolto.
La debole luce che all'alba comincia a rischiarare l'orizzonte rimanda all'intensa sacralità che pervade l'intera produzione artistica dell'illustre realista Jean Francois Millet.

Come questi impegnato nel conferire dignità a un mondo contadino oggi venuto meno, così anche il nostro artista sandonatese nei paesaggi più volte contemplati appare mosso a valorizzare il lavoro umano nelle sue svariate declinazioni: se l'imponente zuccherificio diviene simbolo di un'attività industriale ormai conclusasi che, costata sudore e fatica, tanto ha significato per la locale popolazione, il suggestivo pastello "Luci sulla risaia" diviene espressione di una realtà lavorativa in prossimità di Torre di Fine, oggi ai più sconosciuta, le cui radici, pur affondando in una tradizione tardo-ottocentesca, sono riuscite a sopravvivere, impadronendosi delle moderne tecnologie.
Eppure l'immensa distesa erbosa, animata in primo piano da vivaci sprazzi d'azzurro in cui sembra riflettersi un cielo altrettanto saturo di luce, ritrae una natura apparentemente libera dalla presenza umana, quasi "disordinata" per le brillanti cromie che qua e là tingono la vegetazione di un insolito verde elettrico: sono la potenza del colore e l'abbacinante riverbero della luce i protagonisti di questo paesaggio dove cielo e terra, forse animati dal desiderio di fondersi assieme, risultano invece divisi da uno sparuto filare d'alberi. Gli irregolari profili di queste "improvvisate sentinelle" richiamano gli esili, celesti ciuffi erbosi dove lo spettatore sente di volersi abbandonare nella speranza che una giovane mondina torni a ripopolare queste terre umide.
Attraverso la pastosa matericità della tecnica usata ( il pastello), morbidi passaggi cromatici amalgamano elementi compositivi appartenenti a piani diversi, infondendo nella scena quell'atmosfera onirica di eterno presente che pervade tutte le opere finora analizzate.
Tale atmosfera si coglie in modo, quasi "tangibile", nell'altro grande pastello "Quando la luce svela la magia": qui si assiste al lento risveglio di una natura ancora sonnecchiante nella tenue luce aurorale che con le sue "delicate dita di rosa" ( per dirla con le parole di Omero) rischiara le profondità di un silente specchio d'acqua tingendole di luminose sfumature color indaco; intanto soffici ciuffi erbosi, quasi ondeggianti nell'assoluta immobilità che caratterizza la scena, sembrano sussurrare alla contemplante sensibilità dell'artista la sommessa melodia che si leva da questi luoghi nei pochi irripetibili attimi dell'alba.
E tuttavia ad accomunare gli unici due pastelli di questa sezione, dedicata alle suggestioni che paesaggi e icone del territorio ciliense sono riusciti a ispirare nell'animo del nostro pittore, non è solamente la tecnica usata e il tipo di supporto, ma soprattutto la reale tematica del lavoro che il lirismo dell'immagine spesso non permette di cogliere con lucidità.

Come "Luci sulla risaia" risultava al contempo visione poetica di una vegetazione dai celesti riflessi del cielo e consapevole riflessione riguardo una realtà lavorativa a cui tali lussureggianti luoghi sono tuttora adibiti, anche "Quando la luce svela la magia" (nel cui titolo è già espressa la fiabesca atmosfera di un luogo che si potrebbe ipotizzare contemplato dall'artista soltanto nei suoi sogni), rappresenta una delle principali vasche di decantazione dello zuccherificio, la cui sagoma risulterebbe immediatamente visibile, una volta superata l'ampia ansa descritta dal lento fluire di queste acque ormai abbandonate.
E' dunque questo il Realismo Magico di Giovanni Cesca per cui ogni immagine, in apparenza fedele istantanea della realtà, custodisce gelosamente al suo interno un significato più profondo, un segreto messaggio di cui si percepisce l'urgente necessità di essere scoperto e decifrato?
Io credo di sì: perché dietro la perfezione formale, oltre la sapienza tecnica, al di là dell'armonia compositiva, queste opere parlano, palesando, con la voce del colore e il linguaggio della linea, il filo invisibile che unisce soggetti in apparenza distanti.
Da qui la scelta dell'artista di accostare la realtà fortemente antropizzata di "…in cilium lagunae" a una natura quasi "ai suoi primordi" dove gli archetipici elementi di luce, acqua, terra e aria si fondono insieme a costituire la visione di una realtà ancora intatta, quella di "Barene in laguna", senza traccia alcuna dell'ingombrante presenza umana.
Eppure, superata l'analogia cromatica che avvicina le lattiginose distese lagunari alla nitida geometria con cui regolari lingue di terra delimitano l'omogeneo azzurro digradare delle piatte acque di decantazione, si intuisce un legame più profondo fra questi due piccoli olii dalle uguali dimensioni: "Barene in laguna" e "…in cilium lagunae", pur non rappresentando lo stesso luogo, divengono rispettivamente il prima e il dopo di un territorio il cui originario aspetto, ancora visibile nelle salmastre superfici lagunari, è andato perduto nei massicci interventi di un intero secolo di bonifiche a cui non si è potuto sottrarre nemmeno l'antico borgo ciliense (dal latino "cilium", "margine"), un tempo confine ultimo fra terraferma e laguna.
Cosicché riscopriamo nello stanco zuccherificio che ancora sorveglia questi luoghi familiari, nell'abbandonata, ma ancora maestosa architettura del Donegal, nei melodici sussurri con cui le cangianti acque del Piavon bisbigliano la storia di una terra che ha saputo rinnovarsi, pur conservando la propria identità, la magia di una sconosciuta quotidianità.
E' il passato a rivivere nella contingente realtà del nostro presente, attraverso le profonde radici che ci legano a questi immensi spazi: reali e immaginari.
E il percepirli è un tuffo al cuore.

 

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