Giovanni CESCA

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GIOVANNI CESCA: IL GESTO, LA DANZA E LE INQUIETE FORME CELESTI
di Domenico Cara
1984

 

1.
L’ambientazione ( e lo scambio ) di avventura tra le immagini della pittura di Giovanni Cesca, avviene per misurati magnetismi, progetta silenziose orbite, produce ritmi convulsi e , direi, sedizioni su una superficie algida. La natura interna a codesta serie “infinita” di svolgimenti, puntualizza una qualità di estasi evanescente e resistente, ricordi parziali ma essenziali, eventi riflessi e tutt’altro che casuali e correnti, issa una sua insinuante trascendenza cromatica, nel deserto del mondo, nell’immobilità delle notti che hanno smarrito ogni bellezza e sulle quali si ripete ( e s’affaccia ) la violenza divertita e ironica di certi maliziosi e soffici amorini.
Le oscillazioni ( complessivamente di derivazione musicale ) diventano gesto e danza, ineluttabilità inventiva e serrato accumularsi di frammenti, echi e flore di una catastrofe che diviene via via fiaba, difesa dal contingente, maniere instabili di evocazione e di miraggio. L’ordito, concatenante e convulso, programma allegorie, giochi interrotti e discontinui di urgenza fisica, di nuovi simboli ( alternativi all’abisso attuale ), ma senza proposte oniriche o sommesse situazioni di divergenza ideologica.
La necessità è puramente liberatoria, trionfa sugli schemi erranti del post-informale, costella di nebulose e geometrie il sogno della propria ricerca gremita di luminescenze e di sensibili disponibilità verso le astrazioni dello spazio, in modo incalzante ma non trito o inafferrabile.

2.
La coralità della frantumazione e delle perlustrazioni formali e informi, riprova ( e comunque si richiama assiduamente) quella disgregazione che è propria di certi monologhi interiori, flessioni di equilibrio mentali, visualizzazioni di slancio emotivo, correnti di suggestione che promuovono l’assillo materico sull’emancipazione del loro senso di verità e di logica del segno piuttosto che di maestri consonanti, o di un dominio intellettuale fine a se stesso.
L’artista cresce quindi nelle proprie metamorfosi, registra incanti, gioie di vivere, trionfi psicologici e privati, di cui partecipano la mitologia individuale e la memoria, la Natura e un’intima fantasia armoniosa, certe configurazioni erranti e i paradigmi di una feconda tensione, tutta impiegata per inquadrare il proprio mondo, con vecchie e nuove varianti o minuti dominii d’attività emotiva. C’è in alcune fenditure interferenti – nella cinetica dello spettacolo irregolare – qualche ipotesi di marchingegno, che potrebbe interessare ( e piacere) ai cultori del neo-fantastico, e sulle quali Giovanni Cesca aggiunge effetti di eleganza, che vogliono essere irreali, diventare meteore di un Lirico sogno, improvvisando persino, dentro di esse ( o rifondando) le vibrazioni festose e gli stessi nuclei di surrealtà.
Nel temporale vistoso e lieto, egli verifica comunque il punto dentro la sfera di una possibile sopravvivenza, in cui il suo ego medesimo già ci abita, ri/tracciando ellissi e metamorfosi, e senza ignorare un sostanziale momento d’ombra di alcuni dei loro attivi enigmi, proprio sul clima della fabula e di una consecutiva striatura del frammento.

 

 

 

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